Cap. 06 – Attacco In Famiglia.



Questo sicuramente fu il mio primo caso, in cui dovetti affrontare entità aggressive. Parliamo del lontano 1985. Lavoravo ancora in città, a quei tempi, ed i miei contatti con l’esterno del mio ambiente di lavoro erano decisamente pochi. In quel periodo stavo allenando un simpatico rosso di capello delle zone di Bergamo, per cui ero ancora meno incline ad occuparmi di cose che accadessero al di fuori delle mura del posto dove stavo. Come sempre, la vita trova il modo di portare le persone giuste ad incrociarsi. La madre del mio ‘allievo’ mi fece sapere tramite lui, che una famiglia, loro amica, stava passando un brutto momento in una villetta in una zona appena fuori dalla città. Come sempre, non volli sapere quale fosse il problema, ma accettai, quanto meno di andare a vedere cosa succedesse e se potessi fare qualcosa per loro.

Fu così, che una sera di aprile, mi presentai a casa di questa famiglia, con tutta la buona volontà, una volta saputo quale fosse il problema e che avessi potuto farci qualcosa, di dare una mano.

La villetta, in realtà, era un vecchio cascinale di campagna ristrutturato piuttosto bene: all’esterno aveva mantenuto il suo stile originale e se non si faceva caso alla alta torre, con le le pale che ruotavano, di un impianto eolico, si poteva anche pensare che il cascinale fosse stato sempre così come si presentava, uscendo dallo sterrato che, dalla strada comunale, portava al loro ingresso.

L’allievo mi aveva accompagnato, ma con la chiara consegna che avrebbe solo dovuto presentarmi alla famiglia e poi stare un passo indietro e non parlare se non specificatamente richiesto; ma appena scesi dalla sua auto, fu subito chiaro che la consegna concordata non poteva essere rispettata: una donna sui 40 anni ci venne incontro e lui le saltò letteralmente in braccio salutandola «Ciao zietta!!»

Mi domandai come stessero le cose realmente: mi era stato detto che erano vecchi amici di famiglia non parenti!! L’allievo intercettando il mio sguardo interrogativo si sentì in dovere di chiarire la situazione: «Scusa, ma la conosco da quando son nato!! Per quello la chiamo zia, ma non siamo realmente parenti!». Al solito mi guardò con quel viso da furetto che conoscevo molto bene. «Piacere, Luisa» mi disse la signora stringendomi la mano con una forza tipica di chi lavora da sempre la terra. «Sono davvero contenta di averti qui stasera, sul serio, non capiamo che stia succedendo, e credo che un aiuto sia quello che ci serva». Le dissi che non doveva correre: dovevo ancora sapere quale fosse il problema e se credessi di poter fare qualcosa per lei o meno.

L’allievo intanto si era fiondato in casa lasciandoci soli. Luisa mi fece cenno di seguirla mentre mi diceva «vieni, che la cena è pronta e ti presento gli altri». Mi domandai chi altro ci fosse, mi risultava che abitasse la casa Luisa il marito Franco e due figli: uno di 17 anni e l’altro di 8, ma credevo che visto l’argomentazione della serata che i figli non sarebbero stati presenti.

Entrati in casa, fui travolto da due distinte sensazioni: una, di una famiglia ben legata, comunicativa, con i piedi per terra e lavoratori che non si risparmiavano quando serviva, dall’altra un forte senso di oppressione al petto, come se l’aria fosse di metallo liquido rendendo pesante respirare. «Cominciamo bene» pesai tra me e me. Luisa mi presentò il marito, Franco appunto, ed i due figli Carlo, quello di diciassette e Nicola, quello di otto. Stavo per dare una occhiata alle auree di tutti, ma pensai di farlo dopo: appena conosciuti, specialmente i ragazzi, potevano essere un po’ sulla difensiva.

Fortunatamente pur essendo aprile, l’aria era tiepida ed i mieiospti avevano organizzato la cena all’aperto, sotto un porticato: un profumo di carne alle braci assalì le mie narici che impartirono subito al cervello l’ordine di iniziare a stimolare succhi gastrici; «se non altro si cenerà bene» pensai!

Mi fecero accomodare ad un capo della tavola, dall’altro lato si sedette Franco, sui lati, rispettivamente: alla mia desta l’allievo seguito da Luisa, alla sinistra Carlo seguito da Nicola. Iniziò la cena parlando del più e del meno, dei vantaggi generali, e quelli particolari, a detta di Luisa e Franco, per i ragazzi di non abitare in città; a fine cena, mentre Franco si occupava di andare a preparare il caffè, Luisa parve voler affrontare finalmente il motivo reale della mia visita; lo avevo capito dalla sua aura: era passata da un giallo che fluttuava da un pallido ad un fosforescente a seconda degli argomenti della chiacchierata, ad un grigio plumbeo, segno di preoccupazione per qualcosa.

«Prima che iniziamo» la fermai, «vuoi davvero affrontare l’argomento con i ragazzi presenti?». Luisa mi guardò un po’ stranita, come se si stesse domandando come avessi capito che stava per affrontare la questione saliente, poi un sorriso che affiorò sul viso, come dire «ottimo allora se è capace di capire cosa penso forse è la persona giusta!». I ragazzi alla mia domanda si erano fatti tesi, ma credo più per il timore di essere allontanati nel momento più interessante della serata che per altro. «Beh, direi che allontanare i ragazzi proprio adesso, avrebbe poco senso visto che loro in, prima persona, sono stati quelli a vivere i primi eventi». «D’accordo» le risposi e restai in attesa.

«Devi sapere», iniziò, che tutti i problemi sono nati solo dopo tre anni che già si viveva qui, per la precisione, quando abbiamo iniziato a restaurare la casa», la apostrofai accennando al fatto che la cosa non mi stupiva: di norma la rivelazione di una infestazione si presenta quasi sempre durante una ristrutturazione: le entità legate ad una casa non amano che si cambino le cose da come loro le conoscevano in vita, ed apostrofai «sempre che di infestazione si tratti».

Luisa mi guardò quasi divertita «Beh, non saprei di che altro potrebbe trattarsi, ma procediamo con ordine»; iniziò a spiegarmi che la ristrutturazione era iniziata, per comodità, dall’ex soffitta che era stata trasformata, originalmente, nelle stanze dei ragazzi. A quelle parole notai l’aura di Carlo incupirsi: un grigio sempre più denso e fitto, segno del suo senso di disagio al ricordo degli eventi che stava per raccontare sua madre.

Senza scendere nei particolari, poco dopo la ristrutturazione delle camere dei ragazzi erano iniziati i soliti fenomeni: sussurri indistinti, ombre al limite del campo visivo, voci, non dei familiari, provenienti da punti non determinabili delle stanze. La fortuna dei ragazzi fu che la madre era un po’ nell’ambiente del paranormale, per cui invece di prenderli per matti, fece loro capire che credeva loro, ma cercava anche di tranquillizzarli, facendo capire loro, che non dovevano avere paura, perché i morti non facevano mai del male ai vivi: al massimo facevano un po’ di confusione per cercare un contatto con i vivi residenti.

Un discorso corretto, quanto meno nello scopo di tranquillizzare i ragazzi sugli avvenimenti che succedevano, e con l’ulteriore scopo di far loro vivere la cosa come se fosse naturale. L’unica pecca nel ragionamento di Luisa, ma non lo dissi davanti ai ragazzi, era che, il discorso, era vero se si parlava di fantasmi, ma una infestazione, non necessariamente ha origine da entità umane, che magari hanno vissuto in quella casa: esistono cose ben peggiori, degli spiriti, che possono infestare una casa!

Arrivò Franco con i caffè per me, l’allievo e loro due: i ragazzi evidentemente non erano ancora avvezzi al caffè di sera. «Avete già iniziato, senza di me, mi pare di capire;» apostrofò scherzosamente Luisa. Lei confermò e continuò il suo racconto. Un po’ insospettito dal tono di Franco, controllai la sua aura: come sospettavo cercava di tenere l’aria allegra e discorsiva, ma tra lui e la moglie, lui era decisamente quello più preoccupato della situazione a giudicare dal colore quasi tendente al nero della sua aura.

Il racconto durò per quasi un’ora, ed il piccolo Nicola iniziava a dare segni di stanchezza, così Luisa disse a suo fratello di portarlo a letto; Carlo era chiaramente infastidito dal compito, probabilmente perché voleva essere presente al seguito della conversazione; il padre, evidentemente, sapendo quale parte del racconto stava per arrivare, e visto che doveva riguardare proprio Carlo, intervenne prima che Luisa insistesse: «Lascia Carlo, tanto devo passare dal bagno, lo porto io Nicola a letto. Vieni campione» aggiunse mentre prendeva in braccio il piccolo, «torno tra un po’, voi continuate pure: io la storia la conosco già;» e così dicendo si avviò verso la casa con il piccolo Nicola praticamente già quasi addormentato in braccio.

Luisa guardò, per un attimo, Carlo con uno sguardo di rimprovero. «Dai mamma, alla fine chi le ha prese sono stato io, mica Nicola !!» La cosa si faceva seria. «Prese? In che senso Carlo?» Il ragazzo guardò la madre, come in cerca di un cenno di assenso a prendere la parola, e lei si arrese e gli disse di raccontare cosa gli fosse accaduto.

Carlo stava per iniziare a parlare quando Luisa intervenne: «Carlo, forse se glielo fai vedere rendi tutto più semplice». Senti il mio allievo che iniziava ad agitarsi, evidentemente: o aveva già visto quello che Carlo stava per mostrarmi, o ne aveva paura; lo ignorai, se voleva imparare doveva anche abituarsi a vedere cose del genere.

Carlo si alzò dalla sedia e si sfilò la maglietta che indossava, poi si volse a mostrarmi la schiena: «E che diamine!!» pensai alla vista di tutta una serie di graffi, alcuni già in fase di guarigione, segno che non erano recenti, ma altri significativamente più sanguinolenti, che per forza di cose erano recentissimi.

«Carlo, te la senti di spiegami esattamente cosa è successo?» domandai al ragazzo, mentre osservavo lo sguardo sofferente di Luisa puntato su quei segni, incapace di dare un senso al perché avessero attaccato suo figlio e non lei o il marito. Aggiunsi alla mia domanda «cerca di essere preciso sui fatti prima e dopo l’aggressione se ti riesce, altrimenti ne riparliamo con più calma in un altro momento.»

Carlo sembrava quasi felice di poter essere quello che prendeva in mando la discussione, e direi a ragione visto che, almeno sino a quel momento, che io sapessi, lui era la vittima della situazione che si era venuta a creare.

Facendola breve, per non riportare intero racconto di Carlo, una sera, al presentarsi dei soliti segnali, mise in pratica, un consiglio ottenuto da un conoscente; praticamente questo qualcuno gli aveva detto, che se si fossero presentati ancora segnali, abituali, e si presentarono la sera all’ora di andare a dormire, doveva sfidare, in maniera aperta ed aggressiva, l’entità che lo stava assillando.

Di certo un consiglio più stupido di questo non poteva arrivare: sfidare ed aggredire, sebbene solo verbalmente, una entità che presumibilmente fosse un fantasma era già una cosa stupida e da evitare; farlo poi con una entità, che già dai sintomi, dava l’idea di essere ben di più di un semplice fantasma, era un’idea pessima.

Ed infatti Carlo ne pagò le conseguenze: dopo aver infierito, minacciato, aggredito verbalmente questa entità, la reazione fu un’aggressione fisica: Carlo aveva lungo tutta la schiena segni evidenti di graffi; e non solo: in successivi attacchi era stato colpito anche al petto, alle braccia ed alle gambe. Solo a quel punto Carlo ha pensato bene, che forse smettere di agire in quel modo poteva dargli un po’ di respiro, e così era stato. Praticamente dal momento in cui ha smesso di aggredire verbalmente l’entità, quest’ultima ha smesso di aggredirlo fisicamente.

«Vedi Carlo, cosa succede a mettere in pratica i consigli di persone che non hanno nemmeno idea di con chi o cosa hanno a che fare?». Carlo mi guardò con uno sguardo era a metà tra un «in effetti hai ragione» ed un «ok sono stato stupido».

Luisa chiaramente stava per intervenire: la faceva soffrire che il ragazzo, oltre ad aver subito quello che aveva subito, adesso subisse anche un rimbrotto. Qualcosa, però, la trattenne dal farlo e, dopo aver preso fiato, si rivolse a me: «Mi pare di avere capito, che sia ormai chiaro, tu possa fare qualcosa per aiutarci ad uscire da questa situazione».

Ci pensai un attimo e poi risposi: «Vedi cara Luisa, al momento mi è chiaro il tipo di problema, ma non è ancora chiaro quale sia l’origine di tutto questo: questo genere di infestazioni, indipendentemente dall’età dell’immobile, possono avere come origine sia uno, o più, fantasmi, oppure, una o più, entità di altro tipo. Per quello che mi avete raccontato non credo si tratti di un fantasma, direi che è piuttosto evidente che si tratta di altro; se tu e Franco mi darete il permesso di fare le indagini che sono necessarie, solo allora potrò dirvi se posso fare qualcosa».

Iniziammo così a discutere delle varie cose che potevano essere fatte, quando poterle fare e soprattutto su come farle. Alla fine restammo d’accordo, con Luisa e Franco, che quanto prima mi avrebbero lasciato la casa a disposizione, ossia senza nessuno di loro presente, per poter fare le mie indagini; in loro assenza, sarebbe stato presente solo l’allievo: essendo un loro amico di famiglia avrebbe fatto da ‘garante’ per il mio operato in loro assenza.

Così un sabato mattina mi presentai, con allievo al seguito, dopo esserci salutati con la famiglia, che stava uscendo per lasciarci la casa libera, mi preparai al da farsi. «Mi raccomando: sempre dietro di me, nessuna mossa avventata che non sia stata prima concordata», dissi senza nemmeno girarmi: l’allievo sapeva che stavo parlando con lui e di rimando rispose con un semplice «ok».

Appena passata la soglia fu subito chiara la presenza di una entità nella casa: non tentava nemmeno di mascherasi; era chiaro che cercava uno scontro: nessuna mediazione avrebbe avuto effetto. La cosa mi innervosì un po’ perché speravo di poter ‘parlare’ con l’entità prima di passare all’azione: avrei, almeno, avuto la possibilità di scoprire con chi avessi a che fare. «Pazienza» pensai tra me e me «vuol dire che si farà alla vecchia maniera».

Vecchia maniera voleva dire impiegare molto più tempo: dovevo procedere a tentativi sino ad inquadrare almeno di che tipo di entità si tratti, prima di poter colpire.

Iniziai tentando di percepire in quale posizione fosse, quanto meno per capire se era un immobile o un mobile, cosa che faceva parecchia differenza. «Inizia con i sigilli alle finestre» dissi senza perdere tempo all’allievo ed iniziando allo stesso tempo a porre un sigillo sulla porta di entrata: lo volevo inchiodato in casa; se ci fossi riuscito almeno la cosa sarebbe finita in giornata, o almeno di solito era così: se bloccata in casa l’entità non aveva modo di nascondersi in eterno, ma sopratutto la si rendeva più aggressiva così che si facesse vivo in fretta.

I sigilli erano di tipo ‘dentro si fuori no’ per cui qualunque cosa fosse stata in casa non poteva uscire; al solito impiegammo, visto che la casa era su più piani, la tecnica dei sigilli concentrici, ossia prima finestre esterni poi, un locale alla volta, lasciando per ultime le scale. In questo modo se non era in una delle stanze del pian terreno doveva essere per forza al piano superiore. Inoltre invertendo il sigillo sulla scala, ossia ‘fuori si dentro no’, poteva tentare la fuga verso il piano superiore, ma non tornare a quello inferiore.

Finimmo il lavoro al piano terra e restava solo il sigillo invertito sulle scale da fare. Aspettai qualche minuto per dare il tempo all’entità o di farsi viva o di spostarti al piano superiore e così fu: dopo un paio di minuti in perfetto silenzio, sia l’allievo, dal colore biancastro del suo volto, che io sentimmo qualcosa passarci a fianco in direzione delle scale. «Ora» gli intimai, mentre salivo le scale a tre gradini per volta; e l’allievo velocemente disegnò il sigillo invertito alla base delle scale.

Restava il piano notte e la soffitta, chiaramente la soffitta era un locale unico diviso solo dai mobili per cui sarebbe stato un terreno di scontro più facile da gestire. Così ripetemmo il procedimento dei sigilli, prima sulle finestre, poi sulle porte delle varie stanze da letto e del bagno. Di nuovo di fermammo immobili qualche minuto, in attesa di un segnale che ci facesse capire che era passato al piano di sopra; e di nuovo lo sentimmo passarci a fianco velocemente in direzione dell’ultima rampa di scale. Di nuovo intimai all’allievo di usare il sigillo inverso alla base delle scale e lui velocemente provvedete.

Ora restava il problema delle due finestre degli abbaini della soffitta: se fossimo saliti subito probabilmente si sarebbe dileguato temporaneamente da uno degli abbaini, per cui non si poteva salire e piazzare i sigilli ne dritti ne inversi, senza che tentasse una temporanea fuga.

Restava una sola altra soluzione: mi sedetti comodo per terra, mentre l’allievo capito le intenzioni, si allontanò il giusto; iniziai a ripeter un mantra costrittivo. Un mantra costrittivo, ha la funziona di un sigillo, ma anziché essere apposto su un punto di fuga, come una porta, una finestra o un abbaino, crea una specie di bolla che permea un intero locale. L’effetto è quello di un sigillo, ma si applica lungo tutta la struttura in cui viene evocato; chiaramente richiede molta più energia che porre un sigillo, ma viene comodo in situazioni come queste in cui si bloccare un ambiente prima di accedervi.

Ci vollero circa sette minuti affinché il mantra completasse il suo lavoro, a quel punto dissi all’allievo «adesso resta qui e non muoverti salvo non ti chiami esplicitamente: insomma sai come funziona». Senza nemmeno guardarlo potevo sentire il suo disappunto: avrebbe voluto essere con me nella stanza, così da poter raccontare ai suoi amici di aver partecipato fattivamente all’operazione di allontanamento. Ma aveva già vissuto qualche esperienza non proprio piacevole ignorando le mie disposizioni, per cui decise, nonostante il disappunto, di eseguire senza mostrare il suo dissenso.

Mi armai del mio scudo interiore e salii le scale: «mostrati visto che non hai oltre dove scappare» intimai a voce alta e decisa. Una voce tutt’alto che amichevole mi suonò nella testa «non dovevano scavare in cerca della mia acqua». Ci pensai un attimo su: che voleva dire? Mi stava dando una spiegazione? O cercava di ingannarmi per prendere tempo?

Mentalmente risposti «La tua acqua? E da quando l’acqua è di qualcuno?». Silenzio, nessuna risposta, ma in compenso cominciavo a sentirne la presenza. «Da che mondo è mondo l’acqua è mia!!». Questa volta sebbene sempre nella mia testa, la voce era molto più forte: dura, direi irritata!»

Capii a quel punto chi era: Crocell. Brutto affare: comanda 48 legioni di demoni ed è connesso all’acqua, purché non sia benedetta. Mentre l’aria nella stanza cominciava ad agitarsi chiesi a voce alta, chiaramente rivolta all’allievo: «hanno scavato un pozzo di recente? O hanno imbrigliato qualche corso d’acqua nella zona?». L’allievo ci pensò un attimo e poi rispose «Si: hanno convogliato un ruscello che sta poco distante per annaffiare l’orto, ma pare che l’acqua non sia buona: tutti gli ortaggi sono morti dopo che hanno usato quell’acqua».

Adesso era tutto chiaro: quel corso d’acqua, in qualche, probabile lontano, passato era stato consacrato ad Crocell da qualche pazzo in cerca di favori.

Il problema era come trovare una soluzione: un demone di quella portata con quelle legioni a disposizione poteva essere una gatta troppo grossa da pelare anche per me, anche se considerando l’attacco al solo Carlo, ed in fin dei conti cercato dallo stesso dal momento che lo aveva aggredito verbalmente, forse il demone stesso non era interessato a lottare. «Crocell: se ripristinassero lo stato del corso d’acqua, lasceresti in pace questa gente?». Era un azzardo: tentare una conciliazione con un demone non è quasi mai una buona idea, ma a confronto di uno scontro diretto, mi pareva un alternativa migliore. Non ebbi risposta, ma in cuore mio pensai al famoso bicchiere mezzo pieno almeno non avevo ricevuto un no secco come risposta.

Ripetei mentalmente la domanda e questa volta ebbi risposta «visto che questi mortali hanno agito nell’ignoranza e non mi hanno sfidato volutamente, si, potrebbe bastare, ma l’insolente del cucciolo umano deve chiedermi scusa per come si è comportato o pagherà altre conseguenze e con lui anche la sua famiglia».

Per quanto mi suonasse strano, accettai il compromesso, avvisando però Crocell, che io avrei mantenuto la mia parte dell’accordo, ma doveva farlo anche lui o la prossima volta non avrei cercato un accordo. Era un po’ un azzardo: giocavo sul fatto che essendo dietro il mio scudo lui non poteva vedere fino a che punto potevo spingermi nell’affrontarlo. «Così sia» fu l’unica risposta che ricevetti.

Credevo che la comunicazione fosse terminata e mi apprestavo ad uscire dalla mansarda e mi arrivò, come una folgore senza preavviso, un ultimo messaggio «togli i sigilli prima che io decida di ordinare di radere al suolo questa casa». In fin dei conti un po’ me l’aspettavo: era pur sempre un demone di un certo livello: non poteva finire con un accordo senza qualche genere di minaccia pesante.

Non gli risposi nemmeno: invertii il mantra ed il blocco dalla soffitta si dissolse. «Togli i sigilli man mano scendiamo» dissi all’allievo, che fece una smorfia quasi di fastidio, ma provvedette immediatamente.

Usciti dalla casa chiamai al telefono Luisa e Franco: «ragazzi ho raggiunto un accordo», sentii dall’altra parte dell’apparato un certo stupore, «come un accordo, non l’hai mandato via?». Dissi loro che al loro rientro avrei spiegato quello che dovevano sapere e così fu.

L’indomani ci vedemmo al bar della piazza del paese, «Allora ragazzi avete dormito bene stanotte?». Carlo si lamentò di una notte passata a sentire rumori, scricchiolii e sussurri, ma oltre quello nulla di grave, gli altri avevano dormito bene. «Allora l’accordo è questo: disfate il raccordo che avete fatto sul ruscello a monte di casa vostra, e le cose saranno quasi del tutto sistemate.»

Franco mi guardò un attimo incuriosito: «Beh tanto quell’acqua non è buona: ci ha rovinato tutti gli ortaggi che abbiamo abbeverato.» Luisa era chiaramente sulle spine: «D’accordo, sistemiamo il raccordo… ma hai detto che così saranno QUASI sistemate». «Infatti, ho detto quasi», iniziai, «c’è un’altra cosa da fare: e tocca a Carlo: dovrà chiedere scusa all’entità per essersi comportato da arrogante con lui, ringraziandolo di essere stato benevolo nella sua punizione».

Luisa quasi saltò sulla poltroncina «chiedere scusa?? Benevolo??? Ma hai visto cosa gli ha fatto???». Mi aspettavo una reazione del genere per cui cercai di usare la parole giuste per risponderle. «Cara Luisa, fidati: poteva andare molto, ma molto, peggio. Fortunatamente per Carlo l’entità ha capito che la sua è stata una reazione dettata da altri e non di sua iniziativa, per cui si accontenterà delle sue scuse; e Carlo: bada bene che siano sincere: non è qualcosa che puoi ingannare con false scuse, chiaro questo ?» Carlo fece un cenno di assenso, pareva molto serio su questa questione.

Diedi loro tempo di elaborare la situazione e poi aggiunsi: «c’è un’ultima cosa: voi non saprete il nome di questa entità: solo Carlo ne verrà a conoscenza affinché possa dare le sue scuse come vanno date; ma Carlo» e spostai lo sguardo diretto nei suoi occhi «mai e poi mai dovrai pronunciare o scrivere quel nome, ne per te, ne per altri. Sono stato chiaro su questo ?». Carlo mi guardò un po’ intimorito ma fece un deciso cenno di assenso.

Quest’ultima regola l’avevo aggiunta io: visto che Luisa bazzicava già nel paranormale, ci mancava solo che cercasse di contattare Crocell per curiosità o per un insensato tentativo di vendicare il figlio Carlo.

Dopo qualche giorno Franco mi fece sapere che aveva dismesso il raccordo dal ruscello ed io mi presentai da loro affinché Carlo eseguisse il rito di scuse nel modo giusto. Alla terza ora del mattino invocai la presenza di Crocell nella soffitta e Carlo diligentemente, porse le sue, sembravano davvero veritiere, scuse per averlo sfidato.

Ormai sono passati quasi 30 anni da allora, e non sono state più rilevate attività paranormali in quella casa. Con Luisa e Franco ogni tanto ancora ci sentiamo, ed ogni volta Luisa ci riprova a farmi dire quel nome, che, in tutti gli anni trascorsi, non è mai riuscita a farsi ripetere dal figlio Carlo.


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